An Amalgam Paradigm

ATTO I: Per la vitalità dell’inanimato

Al nostro arrivo il tempo è peggiorato. Non sta piovendo ma un vento glaciale sta soffiando lungo il pendio, curiosamente dai piedi verso la cima. Nuvole basse salgono frettolose il fianco della montagna come se volessero scambiarsi con i massi adagiati su di esso, che invece lo scendono lentamente. Io e Alessandro decidiamo di aver raggiunto la meta per la giornata. Un crocifisso in legno, alto sei metri è rivolto alle pianure sottostanti, ora coperte da un mare di nebbia. Ai suoi piedi, una sezione di tronco tagliata in due lungo la sua lunghezza forma una panca sul quale poggiano il mio marsupio e lo zaino di Alessandro.

Forse avremmo potuto salire di più se fossimo partiti prima questa mattina. Le nuvole mi corrono attraverso, e quando mi avvolgono, sono più fredde che mai; sfortunatamente non ho altro da indossare se non la inutile giacca antipioggia che ho già addosso. Ma è una bella sensazione. Le pareti della montagna sono ancora tiepide, forse sentono il tocco della nebbia allo stesso modo in cui lo sento io. Davanti a me un pendio a forma di cono rovesciato è ricoperto d’erba e di massi di varie misure; al centro striscia una lingua di ciottoli che taglia a metà il grande prato. Qualche animale fischia, probabilmente una marmotta.


Resto in silenzio.


Posso percepire il lento movimento di scesa e disgregazione di quei sedimenti verso il fondo. Quella scia è come un messaggio inespresso da decriptare: la lunga colata di ghiaia imprime le tracce della propria traiettoria di sedimentazione, e il DNA di ogni pietra decifra le loro proprietà catturandone il momentaneo stato di mutazione.

Dopo una dozzina di fischi il silenzio cade, nuovamente, ironicamente religioso davanti a quel crocifisso. Continuo a fissare quel cumulo di ghiaia e massi al centro del pendio, come se stessi aspettando qualcosa. Sembra che siano seduti insieme in lamento o contemplazione, mentre il fiume di nebbia che sale su di loro leviga e carezza i loro pesanti pensieri. Hanno un aspetto umano, il che li rende vibranti, vicini e similmente vivi.


Ancora ricordo quanto fossi ossessionato da quelle creature quand’ero bambino. Creature, nell’apparente ingenuità d’intenderle, come esseri animati, dotati di arbitrio, che abitano la realtà infantile piuttosto che la fantasia; ma anche nell’eccesso di efficacia di quegli oggetti-entità oltre alla percezione ontologica umana, oltre al binomio vita-materia, in ciò che Jane Bennett chiama thing-power.¹

Nella loro viva inorganicità risiede un comune materialismo vitale² che indistintamente permea esseri viventi e esseri diversi-dal-vivente, soggetti e oggetti, e questiona i margini e valori di queste due categorie tassonomiche. Le rocce collezionate sulla bacheca nella mia cameretta erano le mie compagne di stanza, animate dentro e fuori la mia immaginazione e la cui vitalità immanente, relativamente lontana dalle mie capacità percettive, è testimoniata nel già visibile decennale mutuo respiro.

L’intensità del silenzio che occupa le notti nel piccolo borgo dove sono cresciuto non è mai stata abbastanza per ascoltare il lento respiro ossidativo di quelle creature; non sono materia passiva, esse si muovono al di là della diretta percezione umana: un ciclo ritmico di inalazioni e esalazioni trascritte su scala geologica.

Tingendosi d’opaco in un lento processo ossidativo, le superfici precedentemente brillanti e dorate del frammento di pirite ancora sopra la mia scrivania si sono rivelate animate; hanno mostrato il loro respiro, la loro capacità di interagire con l’umidità evaporata dal mio corpo, dal mio tocco; i loro tratti organici. Non è coincidenza infatti che la parola animacy (vitalità/animazione) derivi dalla radice etimologica di anima, che in varie lingue antiche come il sanscrito (atman), greco (pneuma) e latino (anima) significa respiro.³ ⁴


La vitalità della materia si rivela così una proprietà relativa alla soglia percettiva dell’osservatore, un’approssimazione; un segnale analogico convertito in digitale, che passa a 1 solo una volta raggiunto l’intervallo appropriato. Analogamente ai movimenti ciclici della materia organica, anche i composti rocciosi e minerali si animano al di là della diretta percezione umana, e seguono percorsi circolari di riciclo e trasformazione. Al variare di pressione, calore e modalità chimico-fisiche di agglomerazione, le quantità e le strutture degli elementi minerali che compongono i soggetti geologici possono variare, posizionandoli lungo un gradiente di specie intersecanti.

Questo processo è denominato ciclo litogenico, e in esso gli agglomerati inorganici agiscono come corpi viventi, interdipendenti e attivi. Ognuno di questi massi raccolti in contemplazione rappresenta uno stato momentaneo della materia, una mutazione, uno stadio evolutivo. Nel loro cammino ciclico gli elementi della crosta terrestre sono continuamente trasformati, disaggregati e riaggregati da una forma all’altra; e nel farlo scambiano materia e agiscono gli uni sugli altri.

La stessa materia animata cambia disposizione e modalità di relazionarsi alle proprie particelle, mutando da un agglomerato all’altro. Ogni aggregato mineralogico, ogni roccia, ogni elemento inorganico della crosta terrestre trascina una storia in sé: una storia di incroci e mutazioni da uno stato all’altro, da un corpo all’altro. Corpi geologici e non geologici.


Il ciclo litogenico rivela non avere a che fare con la genesi del lithos, ma piuttosto con la sua riorganizzazione.

Sotto la soglia percettiva umana e attraverso periodi geologici, la litosfera diventa viva e il ciclo litogenico emerge come conseguenza della sua vitalità.


Il materialismo vitale che scorre tra le rocce di quel pendio e l’animismo proiettato su di esse, in un atto di reciproco rinforzo, si nutrono a vicenda, generando una spirale vitale che le solleva dallo stato di inerte passività in cui l’assenza di empatia umana e l’eccezionalismo vitalista le avevano relegate.⁶ Sotto la lente del materialismo vitale, l’antropomorfismo non agisce come pratica narcisistica di proiettare la propria immagine su un altro sistema organizzativo; ma piuttosto agisce sulle strutture gerarchiche mentali rivelando un mondo di risonanze e similitudini che altrimenti sarebbe rimasto sepolto.⁷

Concettualizzare rocce o frammenti minerali come creature dà loro una forma, se non antropica almeno biotica, relazionabile e di conseguenza facilmente empatizzabile. Tale livellamento risulta utile alla decategorizzazione delle entità rendendole interscambiabili in termini gerarchici: l’essere umano come agglomerato minerale o gli aggregati litogenici come esito genetico. È una pratica consapevole di empatia.


Vengono così tracciati i paralleli tra forme materiali nella natura e nella cultura. La categorizzazione ontologica dell’essere, divisa tra soggetti e oggetti è questionata esponendo un mondo di aggregati e materialità, un mondo di isomorfie. Il paradigma meccanicistico di un universo composto da parti distinte rivela, al di sotto della soglia della percezione umana, una realtà fatta di forme che, nella loro somiglianza reciproca, mutano, immanentemente, l’una nell’altra.


Le particelle terrestri, attraversando gli eoni, scorrono trasparenti tra corpi, aggregati, e isomorfie, nutrendoli e dando loro carne. 
Mi chiedo in che modo anch’io sia trasparente per loro, se posso davvero definirmi un’incarnazione litogenica. Se anch’io sono, in fondo, una morfologia litogenica.


Mi volgo nuovamente verso quella piccola cerimonia tra rocce. Scatto una foto del loro rituale; vorrei, ma non mi unisco a loro. Rimango invece in piedi a contemplare, come loro, dalla distanza, quella piccola composizione.

Note

¹ Jane Bennett descrive il thing-power come la capacità degli oggetti di manifestare la propria indipendenza e vitalità, evocando gli oggetti come esseri animati. Jane Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things (Durham: Duke University Press, 2010). xvi, 20.
² Invocando una teoria di relatività, il materialismo vitale scaturisce dalla differenza percettibile nei tassi di velocità tra le entità considerate fisse e quelle considerate mobili. Gli oggetti inanimati appaiono come tali nella misura in cui il loro accadere si svolge al di sotto della soglia della percezione umana del movimento; ma al di là del loro apparire, non esiste alcun punto di pura immobilità, non c’è atomo che non tremi di forza virtuale. Ibid., 55–57.
³ La materia che respira in questo scritto non è intesa come un’entità animata, dotata di un attributo non materiale capace di infonderle vita (come l’anima); bensì come materia intrinsecamente viva e, per questo, immanentemente in perpetuo movimento, scambio e trasformazione, anche se al di là delle capacità percettive umane.
⁴ Fritjof Capra, The Web of Life: A New Scientific Understanding of Living Systems, 1. Anchor Books ed. (New York, NY: Anchor Books Doubleday, 1996), 264.
⁵ Le rocce ignee, ad esempio, si generano dal raffreddamento del magma, ma una volta esposte agli agenti atmosferici possono subire processi di disgregazione, erosione e cementazione, trasformandosi in una nuova forma: una roccia sedimentaria. In seguito, questo nuovo agglomerato può sprofondare nuovamente, sottoposto a pressioni e temperature che lo spingono a mutare ancora, diventando una roccia metamorfica.
⁶ Kathryn Yusoff, A Billion Black Anthropocenes or None, Forerunners: Ideas First from the University of Minnesota Press 53 (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2018), 89–90.
⁷ Bennett, 99.
⁸ La parola isomorfismo riferisce a entità della stessa o similare forma.

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