- Gina Venneri
- Maggio 25, 2025
Dove finiscono i giocattoli? Il Mara Mao di Pillimpo a Teguise, fra sogno abbandonato e incubo rurale
«On the island of Lanzarote, a wise and unlettered man has built, to offer it to the world, a strange garden, where has given shape to the disturbing images of his dreams. It is Pillipos planet, a world ordered with images and visions, where angels scamper in the wind with God».
(sinossi del film Los sueños al viento, David Delgado San Gines, 2015)
Nell’entroterra brullo e silenzioso di Lanzarote, dove il vento soffia come un custode stanco tra distese di pietra vulcanica, c’è una casa suburbana. Lanzarote, terra di natura e arte, associata alle opere straordinarie di César Manrique, il cui spirito visionario ha plasmato diverse zone dell’isola con architetture organiche e simboli identitari che si fondono armoniosamente con il paesaggio. Ma esiste anche altro: qualcosa che sfida le convenzioni, un angolo meno noto e molto lontano dalle strutture curate e ben definite di Manrique. Non segnalata dalle indicazioni stradali, sebbene piuttosto conosciuta soprattutto da curiosə e freak flâneurs, la casa si presenta come museo en plein air della dissonanza e archivio dell’eccesso. Non linee pulite, né forme fluide. Un’esplosione di figure che raccontano una storia diversa: quella di un luogo nato da una creatività altra. Ci si arriva per caso, allontanandosi dal casco histórico di Teguise, nel nord-est di Lanzarote. «Ma cos’è quello?» – ho sussurrato a me stessa, con la voce ancora impigliata nel sonno, mentre la mattina si stiracchiava piano tra le nuvole basse. Le strade erano deserte, le jeep ferme come bestie addormentate, e io ero appena arrivata: stanca, stropicciata, e già sorpresa. «Il relitto di un progetto mai veramente compiuto?». A prima vista, poteva sembrare il frutto di un’installazione surrealista sfuggita al controllo. Ma nulla, lì, era ironia colta: tutto si configurava come tragicamente reale. Il giardino, più che uno spazio espositivo, è un parco post-nucleare, dove l’idea stessa di gioco diventa archeologia dell’abbandono. A scandire lo spazio, disseminate tra l’erba, adagiate sul terreno e disposte in maniera apparentemente casuale, ci sono croci e statue di uomini e donne in posture rigide, grottesche o innaturali, con le braccia alzate in un gesto ambiguo: saluto, resa o invocazione? Cimitero degli affetti: un luogo dove gli oggetti sono reliquie postume di funzioni smarrite, di storie interrotte, dai desideri non più riconosciuti. Ogni bambola riversa, ogni animale impagliato, ogni giocattolo annerito e ogni manichino acefalo che affolla l’enorme giardino diventa un monumento al consumo emotivo e alla sua obsolescenza. Un ossario dell’immaginario, dove l’infanzia si rovescia in oblio e il museo in necropoli. Di lui si sa poco, e forse è giusto così. Lo chiamavano don Pillimpo, nome da favola contadina o da leggenda da bar. Povero, solitario, forse analfabeta, José García Martín ha trasformato il proprio giardino in un mondo a parte, nato fuori asse, come le erbacce che si ostinano a fiorire tra le crepe dell’asfalto. Anzi, come le viti di Lanzarote, che affondano le radici nella cenere vulcanica e si stringono in conche scavate a mano, sfidando il vento e l’aridità per continuare a vivere. Così anche le sue sculture: germogli solinghi di un’ossessione, residui testardi di un’urgenza espressiva che non ha chiesto né permessi né riconoscimenti. Nessuno sa quando abbia iniziato, ma a un certo punto della sua vita García Martín ha iniziato a modellare figure con mani da rabdomante: sabbia, argilla e acqua per dare forma ai corpi, gesso bianco per vestirli di silenzio. Nel tempo, quei corpi hanno cambiato pelle più volte: don Pillimpo amava dipingerli, soprattutto di verde chiaro, forse il colore della speranza, o forse solo quello dei sogni umidi e storti. Ma quando è morto, nella primavera del 2019, erano già tutti bianchi. Come il lutto, come le ossa, come la fine. Il luogo è conosciuto con diversi nomi: Museo Mara Mao, oppure Museo Pillimpo. Ma all’ingresso c’è scritto: «el Paraíso del Recuerdo». E non c’è definizione più adeguata: non un museo, non una casa, non un’installazione. Solo un paradiso distorto della memoria, un cortile abitato da ciò che resta dopo che la lingua, la storia e la biografia muoiono. In questo senso, il Mara Mao si inserisce nella categoria di ciò che Roger Cardinal ha definito, nel 1972, outsider art: forme creative nate ai margini del sistema artistico ufficiale, spesso realizzate da autodidattə, esclusi, outsider culturali, appunto, persone che non agiscono per il mercato ma per esigenza comunicativa. La disposizione è caotica, a metà strada tra l’intenzionalità di un collezionista compulsivo più vicino alla logica dell’accumulo che a quella della selezione l’entropia di una discarica. Più che spiegare, confonde: questo lo avvicina a una forma di museografia del margine, descritta da Clémentine Deliss come pratica curatoriale che si svolge fuori dalle zone di controllo, dove l’oggetto non è interpretato ma lasciato esistere nella sua ambiguità culturale e materiale. Nel Mara Mao l’idea di museo non rappresenta la cultura, ma la sua degenerazione e la sua sopravvivenza. Il suo effetto più potente non è tanto nella sorpresa, quanto nella distorsione e nell’inquietudine che nasonoe dal riconoscere in ciò che dovrebbe essere rassicurante – i giocattoli, le bambole, gli animali – qualcosa di spettrale. Das Unheimliche: familiare, ma disturbante. Un giorno, per puro caso – come succede con le scoperte importanti – il regista David Delgado San Ginés si imbatteva in quel giardino impossibile e nasceva, così, l’idea di un film, intitolato poi Los sueños al viento, stato presentato nel marzo 2015 al Festival del Cine di Las Palmas de Gran Canaria. Non c’era copione, solo la voglia di don Pillimpo di raccontare i suoi sogni – o forse di lasciarli volare una volta per tutte, portati via dalla calima. Un viaggio di ottanta minuti nell’universo privato di un uomo che non ha mai chiesto di essere artista, ma che ha riempito il proprio pezzo di mondo con la sua mitologia personale. Il Mara Mao non cerca spettatorə, ma testimonə. Non si visita, si attraversa – come si attraversa un’allucinazione. Si guarda con un occhio aperto e uno chiuso, nella paura che tutto ciò che contiene possa, a un certo punto, tornare in vita. Avrei tanto voluto rubare qualcosa. Un peluche stinto, una scarpa, anche solo una delle teste spezzate dei manichini. Portarla via come prova, o come talismano, o forse per liberarla da quel silenzio, da quell’aria secca che corrode tutto. Ma al Mara Mao, gli amabili resti sembrano guardarti; e ti accorgi che non puoi toccare niente, non perché sia proibito o perché tutto sia già morto, ma perché tutto è ancora troppo vivo. Quegli oggetti non vogliono essere salvati, sono in attesa di un tempo che non verrà. E così me ne sono andata a mani vuote, ma con una sensazione nuova. Come dopo una visita al cimitero di qualcuno che non hai conosciuto, ma che – inspiegabilmente – ti manca. A quanto pare, il giardino di don Pillimpo è in vendita. Così, senza clamore. E con lui rischiano di sparire anche tutte le sue visioni scolpite: le croci, i corpi muti, i segni. La materia fragile dei sogni, si sa, non regge bene ai passaggi di proprietà. Alcunə, sull’isola, hanno lanciato appelli, tentato contatti con istituzioni locali, provato a salvare almeno una parte di questo mondo sbilenco, ma finora tutto è rimasto in sospeso. Né il giardino-museo né le sue creature sembrano destinati, per ora, a una tutela concreta. Chi sia il proprietario attuale, nessuno lo sa davvero. Eppure, anche in questa incertezza, l’opera resiste… per ostinazione poetica. «Un regalo para el mundo, para el pueblo», come diceva don Pillimpo.













Riferimenti bibliografici
Cardinal, R. (1972), Outsider Art, New York-Washington.
Deliss, C. (2013), The Metabolic Museum, Berlino.
Duncan, C. (1995), Civilizing Rituals: Inside Public Art Museums, Londra/New York.
Farb Hernández, J. (2020), Singular Spaces II. From the Eccentric to the Extraordinary in Spanish Art Environments, Milano.
Jordán, D. (2021), La posibilidad de un museo, Lanzarote.
Rhodes, C. (2000), Outsider Art. Spontaneous Alternative, Londra.
Vidler, A. (1992), The Architectural Uncanny: Essays in the Modern Unhomely, Cambridge.
Riferimenti sitografici
http://pillipoalviento.blogspot.com.es
https://www.lpafilmfestival.com/en/pillimpo
https://25mq-di-verde.blogspot.com/2013/11/casa-museo-mara-mao.html
https://hyperallergic.com/516362/rescuing-art-sites-on-the-endangered-list
https://historiadeteguise.com/2016/05/18/jose-garcia-martin-pillimpo-esculturas
https://outsider-environments.blogspot.com/2016/03/jose-garcia-martin-jardin-de.html
https://enposdelaballenablanca.blogspot.com/2015/05/suenos-para-un-cine-posible-lo-ultimo.html
Crediti fotografici
Courtesy the author

Gina Venneri, classe ’95. Backpacker, graveyard goer, freak flâneur. Scrive principalmente di immaginari eccentrici e produzioni visive che sfiorano l’allucinazione consapevole, memoria e spazi liminali. È attualmente dottoranda in Metodi e Metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica all’Università di Salerno e la sua ricerca indaga i processi di risignificazione che interessano i cimiteri storico-monumentali peninsulari. Ama quando le sue fobie hanno un nome. È redattrice per il magazine LibidoDocta e ha collaborato con gallerie d’arte, associazioni e realtà del terzo settore nell’ideazione di mostre collettive, eventi e progetti culturali.
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