- Niside Panebianco
- Ottobre 26, 2025
Genius loci alla deriva. Capitolo Tre
Outro, destino (+ note sulla metodologia)
Pallagorio, Italia
INT. – LA CASA DI MIO ZIO (ALCUNI MESI PRIMA)
Personaggi: io che torno al villaggio di mio padre ed entro a casa di mio zio. | Suono diegetico: silenzio.
Sono di ritorno al paese e, ancora una volta, mi ritrovo a curiosare in una casa abbandonata — quella di mio zio.¹ È morto anni fa, ma da allora nessuno ha più toccato nulla.
I cassetti sono pieni di negativi con spiagge Brasiliane, case incompiute, palme e gruppi di persone che sembrano paisani² per abiti e postura, come ritagli che non si abbinano allo sfondo. Apro l’anta del suo armadio, quando il solleticante odore del tempo e l’umidità mi fanno starnutire. È in questo momento che, guardando giù, intravedo tra alcune scatole un apparecchio piccolo ma voluminoso, che riconosco subito. È una macchina compatta Pentax che, di sorpresa, reagisce al mio tocco con un piacevole ronzio elettronico.
Un piccolo schermo s’illumina di verde e mi indica che restano ancora 20 foto da scattare. Mi chiedo che sorta di immagini siano rimaste ostaggio di questa scatola di plastica. Chiedo sommessamente permesso alla stanza, chiudo l’armadio ed esco di casa con l’oggetto ritrovato, impaziente di far rivedere la luce alla pellicola intrappolata.
São Paulo, Brasile
INT. – LA MIA CASA TEMPORANEA
Personaggi: io nella mia casa temporanea a São Paulo. | Suono diegetico: rumoroso sottofondo di traffico.
Nonostante provenga dal Sud Italia, dove il sacro e il profano coesistono per arcaiche negoziazioni, non ho mai creduto nella sfiga. Tuttavia, ultimamente comincio a sospettare che stia accadendo qualcosa di strano. La mia macchina digitale non è sopravvissuta al mio ottavo giorno in Brasile. È caduta, in circostanze misteriose, e si è rotta. Un’importante battuta d’arresto, considerando che sono venuta fino all’altra parte del mondo per filmare un documentario.
Non mi rimane più nulla per raccontare una storia oltre alle mie mani che scrivono, e alla Pentax che, indecisa, ho infilato nella borsa un minuto prima di correre all’aeroporto. L’argomento vincente nel mio dibattito mentale è stato: “Questo rullino dev’essere completato in Brasile, gli sarebbe piaciuto”. Così è stato, ho finito di scattare e l’ho fatto sviluppare a São Paulo, per scoprire poi che le fotografie già presenti — scattate più di due decadi prima — mostravano mio zio esattamente qui, in questa città, posando di fronte all’Edificio Italia.³
Outro destino,⁴ per lui, che non è mai riuscito a trasferirsi qui, sebbene la sua casa e fotografie manifestino ciò che sembrava esser diventato un sogno intrusivo. Incompiuto, come il rullino lasciato ad aspettare nella sua macchina. Interrotto, come le case costruite a metà di coloro che emigrarono, poi mai più tornati in paese.
Outro destino, decisamente — diverso da quello di altri italiani che vissero questo sogno al posto suo, che conquistarono un nuovo stato sociale e firmarono la realizzazione di uno dei palazzi più rinomati del centro di São Paulo, di fronte al quale si era fatto ritrarre.
Destino. Questa parola riecheggia nella mia testa, tre sillabe che continuano a girare in tondo. Outro, che significa “altro” in Portoghese, o anche quella sezione, nella musica, che accompagna un pezzo alla sua fine. Rimugino un po’ su questo gioco di parole, e mi chiedo perché alcune cose accadano. Penso anche a quelle volte in cui non riusciamo a scrivere da soli la conclusione delle nostre storie.
Forse, attraverso questa ricerca, sto vivendo l’outro di questa storia familiare. Titubando nello spazio di un’ultima frase prima del punto finale, uno spazio stretto e fragile ma pieno di possibilità, in cui le parole possono essere ricombinate, dove la vita è latente, ed il suo carattere incompiuto pulsa per far spazio ad un finale inaspettato e pieno di eventi.
O, forse, alcune storie non finiscono mai del tutto. L’eredità della loro incompletezza è trasmessa a coloro i quali s’azzardano a guardare bene per capire, a prendere le redini di una memoria affinché non perisca. La mia presenza in questo posto è uno sforzo di stabilire connessioni tra luoghi, che sono inevitabilmente legati dal loro mutevole senso di identità. Dunque, quando l’ambientazione è la Calabria protendo verso, e immagino, São Paulo, e quando invece sono a São Paulo, immagino e protendo verso la Calabria. É una deriva che accade in uno stato semi-onirico, la traduzione in parole di una dérive empirica.
São Paulo, Brasile
(FLASHFORWARD, ADESSO)
note sulla metodologia
Personaggi: io nella mia casa temporanea a São Paulo, alcuni giorni prima di andarmene. | Suono diegetico: io che leggo ad alta voce estratti del libro di Saskia Sassen; clacson di macchine in sottofondo.
La sociologa olandese-americana Saskia Sassen scrive, in relazione ai margini sistemici, che non dovremmo dimenticare il trascorso storico di regioni che oggi sembrano senza speranza. Dovremmo smettere di considerare la “disperazione” un tratto distintivo di alcune culture. Occasionalmente, Sassen rende visibile l’attraversamento nello spazio degli espulsi, mostrando come i poteri contemporanei abbiano creato “geografie mobili” che traggono profitto dalle risorse di un luogo per poi spostarsi altrove, lasciandosi dietro terre impoverite e distruzione sociale. Trattano persone e territori come se fossero usa e getta. Una volta consumati, li espellono silenziosamente dalle geografie del privilegio, rendendoli senza speranza.
Sono qui in Brasile per ricordare un periodo precedente alla “disperazione”, e i contemporanei esempi di resistenza contro di essa. Ma la mia dérive ha portato con sé un’altra realizzazione: che da queste migrazioni di massa sono emersi due destini diversi per la stessa comunità. Da una parte la perdita di speranza di chi rimase in paese. Dall’altra, il fare la ‘Merica⁵ di quelli che partirono, ma che allo stesso tempo contribuirono alla disperazione dei nuovi subalterni locali. Due geografie distinte, ma le stesse persone, con due destini diversi relativi al luogo in cui si trovarono (o decisero di restare).
Sassen continua affermando che “la ricerca empirica e la ricodifica concettuale devono avvenire insieme — hanno bisogno l’una dell’altra. Empiricamente, un fenomeno può apparire “africano” o “americano”, [o “italiano”, aggiungo qui] ma questi indicatori geografici di un’epoca precedente sono ancora utili per comprendere il carattere della nostra epoca?”.⁶ Ricollego questa domanda a tutti gli indicatori della presenza italiana a Bixiga, ampiamente utilizzati dai media locali per esaltare il fascino di un quartiere altrimenti considerato marginale. Concentrarsi esclusivamente su questi specifici segni del passato significa ignorare il carattere contemporaneo del quartiere, dove gli italiani non rappresentano più la maggioranza degli abitanti e si sono trasferiti in aree più ricche della città. Il loro spostamento fa parte delle geografie mobili menzionate in precedenza. Ciò che Sassen chiama “ricodifica” inizia dunque dal riconoscimento della natura contesa di questo territorio, intessendo nuove narrazioni capaci di far emergere le lotte politiche degli attuali residenti, produttori di una cultura fondamentale che necessita di essere pubblicamente salvata e tutelata.
La ricerca empirica è cominciata per me, senza saperlo, ogni volta che mi aggiravo per case abbandonate in Calabria, cercando qualche informazione sperduta che mi permettesse di ricomporre una storia d’emigrazione, o di costruirci la mia mitologia intorno. Qualcosa che potesse rendermi partecipe di quel sentimento, provato da molte persone, di lasciarsi tutto alle spalle. Questo è anche il punto in cui mi sembrava che il fenomeno fosse esclusivamente “Calabrese”, che potessimo sentirne e comprendere il peso solo noi; tessevo, con la mia nostalgia, aneddoti sullo spostamento di massa e sul genius loci alla deriva. Tutto nasceva da un luogo di dolore che mi aveva condotta a un vicolo cieco, costringendomi a trovare nuovi angoli di osservazione.
La ricerca empirica ha cominciato a svilupparsi in modo più consapevole quando ho deciso di andare in Brasile e ripercorrere l’itinerario dei miei parenti, per vedere con i miei occhi il contenitore geografico del loro sogno e, spinta da una certa nostalgia, usare la
macchina fotografica di mio zio per imprimere le prime immagini su pellicola.
Ma il racconto di “noi, poveri migranti calabresi” è presto entrato in conflitto con la realtà che ho trovato oltreoceano. Solo quando ho deciso di uscire da me stessa ed esplorare nuovi contesti, incontrando gli abitanti del quartiere di Bixiga, sono riuscita a ricodificare concettualmente la storia che avevo con tanta cura ricomposto (essendone fino ad allora l’unica interlocutrice). La mia storia ha acquisito profondità attraverso la relazione.
Difatti, un’altra idea dietro la dérive e la critica Situazionista dell’ambiente urbano considera lo spazio come qualcosa di occupato dal ‘nemico’, come se stessimo vivendo costantemente sotto un coprifuoco. Il nemico, qui, non è comparabile a quella che può essere la massiccia presenza di polizia, ma si riferisce piuttosto alla geometria urbana stessa. Andare alla deriva, dunque, può iniziare dallo sfidare i modelli geometrici che normalmente guidano i nostri movimenti nelle città, ed usarlo come metodo di apprendimento.
Da un lato, la mia osservazione degli elementi familiari — come l’architettura — in questo luogo ha confermato gran parte di ciò che avevo letto e sentito sull’influenza italiana pervasiva nella città. Allo stesso tempo, l’esperienza di una sfera più sociale e culturale mi ha suggerito che quelle piccole case e chiese italiane fossero tracce di un’epoca passata, solo uno degli strati di una storia molto più complessa, nella quale fattori come igienizzazione sociale, razzismo e segregazione non possono essere ignorati se si vuole discutere delle identità legate ai luoghi.
Collocarmi al “centro”, in quanto narratrice, mi ha aiutata a realizzare una ricodifica concettuale delle domande iniziali che avevano mosso questa ricerca. Cosa potevo comprendere dell’identità collettiva e della sua trasformazione osservando la corrispondenza scritta tra il villaggio dei migranti e il loro luogo d’arrivo? Fino a che punto la presenza di una comunità (o la sua assenza) contribuisce a fare un luogo?
L’esperienza diretta del dittico villaggio/quartiere metropolitano e della loro natura stratificata ha spostato il mio sguardo dalle identità dei movimenti di massa alle conseguenze di tali movimenti, alle implicazioni sociali del loro trasferimento in altri contesti e alla ricerca di un genius loci che, forse, si è perso nel frattempo.
Come autrice, l’intervento sulle fotografie d’archivio, l’uso della macchina fotografica compatta di mio zio, le vecchie lettere e i filmati realizzati in Brasile si fondono all’interno di un’unica linea temporale, che fa apparire queste creazioni sia come un’azione spontanea sia come il risultato di un processo decisionale. Si uniscono, in altre parole, in momenti di discontinuità che ho creato attraverso i materiali.
Ad esempio, ritagliare le sagome dalle immagini d’archivio è, nella mia ricerca, un modo per animare l’assenza che ha progressivamente occupato i luoghi che chiamavo casa. Quando la vita in una fotografia diventa una serie di spazi vuoti a forma umana, e l’immobilità di un paesaggio è tutto ciò che resta nell’inquadratura, il significato va cercato altrove.
La linea temporale funziona, in questo caso, come un laboratorio di sperimentazione del tempo — dove fotografie, filmati e voci registrate diventano personaggi del mio dérive. Si combinano per raccontare al presente, ma in un movimento in avanti. Se non avessi lavorato in questo modo, avrei ridotto i materiali d’archivio a semplici reliquie nostalgiche, a momenti di quieta contemplazione e dolore personale.
La mia ricerca visiva, al contrario, mira a favorire la creazione di nuovi significati e nuove relazioni, mantenendo l’Outro in corso e aperto, non per negligenza ma per l’urgenza di lasciare la storia aperta a narrazioni polifoniche, a punti d’ingresso che emergono quando scegliamo di addentrarci — o di dériver — negli spazi liminali che gli autori vincenti della Storia ci hanno insegnato a respingere.
Note
¹ Personaggio menzionato prima. Vedi Capitolo 1, pt.I
² Parola che si riferisce agli abitanti del proprio stesso paese o villaggio, agli altri membri della propria comunità (espressione dialettale diffusa nelle regioni meridionali d’Italia)
³ Il quarto edificio più alto di São Paulo.
⁴ Portuguese for “another destiny” or “another destination”.
⁵ Portuguese for “another destiny” or “another destination”.
⁶ Sassen, Saskia. “At the Systemic Edge.” Cultural Dynamics vol. 27, no. 1, 2015.
⁷ Genere di musica popolare di matrice Africana.
⁸ Racionais MC’s. “Racistas Otários.” Vaga Lume, www.vagalume.com.br/racionais-mcs/racistas-otarios.html. (accesso al sito 4-12-24)
Bibliografia
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Filmmaker sperimentale, fotografa e ricercatrice italiana, attualmente basata nei Paesi Bassi. La sua pratica si muove tra fotografia, archivi e media temporali, esplorando i temi di memoria, identità e migrazione attraverso un approccio collaborativo. Cresciuta in Calabria, ha sviluppato un interesse per la geografia umana e i processi di spostamento, che si riflette nel suo progetto in corso genius loci as a drifter (genius loci in deriva), sull’emigrazione calabrese in Brasile. Con un background in lavoro sociale e più di sette anni di esperienza come fotografa freelance, ha collaborato con comunità ai margini urbani in America Latina, Africa del Nord ed Europa. Tra i progetti/collaborazioni recenti: Off Campus San Siro (Milano), Paradise The Hague con l’Embassy of the North Sea, e la scuola dissidente NUA in una favela della zona est di São Paulo. È attualmente studentessa MA in Photography & Society alla Royal Academy of Art de L’Aia.
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