- Niside Panebianco
- Luglio 4, 2025
Genius loci alla deriva
«La storia lancia le sue bottiglie rotte dalla finestra.»
(Sans Soleil, Chris Marker)
Abstract
Questa tesi esplora l’eredità dell’emigrazione calabrese in Brasile attraverso un’indagine transatlantica basata sugli studi della Post-Memoria e alimentata da fotografie e lettere d’archivio ritrovate nella casa ormai in rovina della mia bisnonna. A partire da una corrispondenza personale indirizzata a un villaggio arbëreshë del Sud Italia, il lavoro interroga il silenzio, lo sradicamento e la perdita del genius loci — lo spirito dei luoghi — nelle comunità svuotate dalla migrazione. Radicato nei toni intimi di una storia familiare, il progetto si apre a riflessioni più ampie sull’identità collettiva, le dinamiche razziali e la trasformazione degli spazi, attraverso una ricerca sul campo condotta a San Paolo, una delle principali mete dell’emigrazione calabrese (e italiana) dalla fine del XIX secolo.
Dal punto di vista metodologico, il progetto si ispira alla nozione di dérive di Guy Debord — un modo di muoversi nello spazio affettivo e decentrato — per svelare narrazioni a me nascoste e mettere in discussione racconti monolitici sulla migrazione. Questo approccio permette una lettura in prima persona della città, in questo caso San Paolo, come archivio curato, dove l’architettura rivela tensioni tra appartenenza ed esclusione. L’arrivo degli immigrati italiani del Sud, seppur motivato da un previo stato di miseria, ha anche contribuito al rimodellamento di quartieri storicamente segnati dalla vita afro-brasiliana. Tenendo a mente il concetto di “gentrificazione dei corpi” di Joice Berth, la ricerca riflette su come l’eredità migratoria italiana abbia finito per oscurare storie precedenti, riquadrando certe aree principalmente come “quartieri italiani” e offuscando le loro radici culturali non bianche.
Attraverso un linguaggio multimediale che unisce docu-fiction, materiali d’archivio e una scrittura di tipo sceneggiato, questa tesi ricostruisce un viaggio psicologico e geografico tra memorie frammentate, ponendo la domanda su cosa significhi ereditare una storia — e quali responsabilità comporti il continuare a raccontarla.
Introduzione
genius loci in deriva è un’indagine che attinge alla Post-Memoria e nasce da un insieme di vecchie fotografie e lettere ritrovate nella casa, ormai in rovina, della mia bisnonna. Questo lavoro affronta la storia dell’emigrazione delle comunità calabresi verso il Brasile. La corrispondenza ritrovata dà avvio a riflessioni sull’identità collettiva, arricchite da una ricerca sul campo nello stato di San Paolo, dove molte persone provenienti dalla Calabria (inclusi alcuni miei familiari) si trasferirono negli anni ’50 per sfuggire alla povertà. Il villaggio arbëreshë in Calabria a cui erano indirizzate le lettere è solo uno tra i tanti luoghi del Sud Italia che hanno assistito alla fuga di intere comunità, diventando col tempo completamente — o quasi — abbandonati, deprivati del loro genius loci.
Cresciuta all’interno di una narrazione frammentaria e monofonica su questa migrazione, cerco di tracciarne le conseguenze non solo nel paesaggio calabrese, ma anche nel tessuto urbano e sociale di San Paolo. Attraverso la mia ricerca oltreoceano, spero di rintracciare tracce della mia comunità che mi permettano di riformulare e approfondire i racconti orali che mi sono stati tramandati.
Per orientarmi in questo percorso, adotto la nozione di dérive di Guy Debord come lente metodologica — un approccio che privilegia il movimento, gli incontri e le geografie affettive rispetto a strutture rigide. Questa pratica del vagare rivela strati identitari culturali al tempo stesso complessi e controversi. Sebbene termini come “sincretismo” evochino spesso una fusione armoniosa tra culture, essi possono anche nascondere processi di subordinazione, cancellazione e disuguaglianza sistemica. Usare la dérive come metodo mi consente di leggere la città come un archivio editato — curato dalle storiche dinamiche di potere che hanno prodotto margini visibili o nascosti.
L’arrivo degli immigrati calabresi a San Paolo, ad esempio, non fu solo un’aspirazione a una vita migliore, ma anche un fenomeno che partecipò — spesso inconsapevolmente — allo sradicamento e alla marginalizzazione delle comunità afro-discendenti. Come scrive la femminista, curatrice, urbanista e scrittrice Joice Berth, si tratta di una forma di “gentrificazione dei corpi”, in cui immigrati bianchi o dalla pelle chiara occuparono e rimodellarono spazi precedentemente abitati da neri brasiliani.
San Paolo diventa dunque luogo chiave di questa indagine — un contesto in cui cerco segni architettonici e culturali sia di riproduzione che di cancellazione. Questi indizi servono a legare e ampliare le narrazioni orali che ho ereditato crescendo in Calabria, e offrono nuove letture che parlano a dinamiche più ampie di razza, classe e identità.
Attraverso una combinazione di materiali d’archivio e riprese docu-fiction, ricostruisco un viaggio psicologico e geografico che si sviluppa attraverso un approccio collaborativo e multimediale. Questa metodologia diventa uno strumento per mettere in dialogo storie ereditate — spesso frammentarie — di migrazione con narrazioni contemporanee che affrontano le disuguaglianze razziali sistemiche.
La mia scrittura adotta sequenze simili a sceneggiature, in cui intreccio ricordi d’infanzia con impressioni raccolte durante i miei recenti viaggi in Brasile. Questi ricordi sono trattati come “scene”, una strategia narrativa che riflette la natura frammentata e di seconda mano della storia che cerco di raccontare. In questo contesto, mi posiziono come mediatrice — traducendo tra i ricordi della mia famiglia e le esperienze vissute dai discendenti calabresi che ho incontrato a San Paolo. Questo formato “a sceneggiatura” permette una distanza necessaria, che mi consente di avvicinarmi a storie che non ho vissuto direttamente, pur mantenendomi responsabile nei loro confronti.
Questo lavoro non è mosso da una nostalgia riparativa per un passato pre-diasporico, ma dal desiderio di evidenziare le molteplici interpretazioni dell’identità e il modo in cui queste influenzano l’accesso alla casa e alla città. Al suo nucleo, il progetto interroga i paradossi strutturali di una regione storicamente “in fuga” — una regione che spesso non riesce a estendere empatia o giustizia riparativa a chi migra oggi attraverso il Mediterraneo. Allo stesso modo, il lavoro esplora le contraddizioni presenti in Brasile, dove i discendenti degli immigrati italiani possono custodire una memoria romanticizzata della “madrepatria” mentre esprimono timori o pregiudizi verso i loro vicini non bianchi.
Capitolo Zero. Definire il Genius Loci
Cosa ci faccio qui, se la vita si sta svolgendo altrove?
È bizzarro trovarsi fisicamente in un luogo mentre si esplora con la mente l’altrove.
C’è stato un tempo in cui i luoghi ospitavano entità soprannaturali. Le abitazioni erano costruite con sabbia e pietre ed erano pervase da uno spirito che proteggeva ogni strato dell’insediamento umano, soprattutto il focolare domestico. L’immagine di una divinità domestica è presente in molte epoche e culture, dalle credenze pagane al folklore dei più disparati angoli del mondo. Hestia, per gli antichi greci; il gashin dello sciamanesimo coreano; i cofgodas nel paganesimo anglosassone; l’orixá Exu per il Candomblé brasiliano: tutte queste sono espressioni dell’intrinseco desiderio di proteggere la propria casa dalle calamità e dalle disgrazie. Essi parlano del bisogno profondamente umano di sentire che il nostro primo luogo di crescita e relazione con l’altro è salvaguardato da forze più che umane.
Nell’antica cultura romana era credenza comune che ogni luogo avesse un suo proprio spirito, che influenzava le persone e gli eventi che vi si verificavano. Questa idea sottolineava la sacralità dello spazio e il rapporto tra gli esseri umani e il loro ambiente.
Mentre cerco di comprendere la storia della Calabria, immagino lo spirito custode dei luoghi – o quello che i romani chiamavano genius loci – mettersi in viaggio con una valigia di cartone per ricongiungersi alle comunità di cui, un tempo, fu protettore.
Nonostante sia una penisola, la Calabria mi è sempre sembrata un arcipelago, fatto di città isolate ma con tratti comuni, le cui analoghe lotte si sono semplicemente svolte a ritmi diversi. Fu solo quando le persone cominciarono a lasciare le loro città natali e a fondare comunità in luoghi lontani che le sue genti cominciarono a identificarsi come ‘italiani’ e diventarono formalmente tali. Prima di allora, l’identità difficilmente superava i confini di un villaggio, di una città o di un territorio con un dialetto comune. Dopo le migrazioni di massa, tuttavia, una nazionalità condivisa diventó un mezzo per affrontare insieme l’enorme senso di estraneità provato da individui che non avevano quasi nulla in comune. Le persone iniziarono a coltivare un senso di appartenenza a un luogo unico, seppur dai tratti astratti, lasciando un’impronta anche sulle generazioni successive.
L’idea di costruire un’identità collettiva da zero acquista maggiore chiarezza se pensiamo che, nel caso delle migrazioni di massa sopra citate, quella che doveva essere una fuga temporanea dalla patria diventó — una volta resosi impossibile il ritorno dei migranti nei luoghi di origine — uno stato di permanente erranza. Noi, le nuove generazioni, i futuri migranti, abbiamo imparato a portare intimamente dentro di noi il genius, e quei vividi ricordi di un astratto “ritorno a casa” sono diventati il nuovo luogo da proteggere. Alle nostre spalle, freddi scheletri di case, ormai prive di qualsiasi sacralità, ammassate in luoghi dove il tempo sembra essere l’unica forza viva, e sussurra dalle crepe nei muri storie di comunitá svanite.

Data l’impossibilità di tornare, gli sforzi degli emigranti per ricostruire e preservare un’identità culturale hanno effettivamente dato luogo a nuovi processi di costruzione identitaria. Questa identità si basa, paradossalmente, sul passato piuttosto che sul futuro. Dopo l’emigrazione, il senso d’identità inizia a fondere volatili ricordi provenienti da luoghi sparsi per l’Italia con una diversità di elementi culturali già presenti nel nuovo ambiente circostante.
L’antropologo Vito Teti mi ricorda dolorosamente che ogni narrazione sul Sud Italia deve essere sottoposta a una pars destruens¹, ovvero un momento di negazione della retorica creata dagli stranieri di passaggio, che costituisce la maggior parte degli scritti disponibili. Questo processo include la demolizione dei pregiudizi esterni sul Meridione, come passo necessario per difendere e giustificare l’attenzione alle narrazioni relative ai nostri luoghi.² Ma cosa succede quando la maggior parte degli scritti e delle fotografie d’archivio disponibili al pubblico sono opera di ricchi stranieri in viaggio durante un Grand Tour? E se la memoria che è stata attentamente conservata fosse sempre stata scritta dai vincitori? In tal caso bisogna riconoscere che la pars destruens ci lascerebbe con un vuoto, archivi con punti ciechi che noi, nel rivendicare la nostra narrazione, dovremo maneggiare con cura.
Anche a me occorre una pars destruens per cercare di comprendere le conseguenze dell’emigrazione calabrese in Sud America. Crescendo, ho costruito un’idea che tendeva a romanticizzare o vittimizzare la storia di coloro che hanno lasciato la nostra terra, immaginando si trattasse di un processo puramente solitario, aldilá dei successi ottenuti da alcuni. Tendevo a immaginare la sensazione di essere sradicata, ma mai le dinamiche di insediamento in un nuovo luogo. Ciò è avvenuto anche a causa della mia insufficiente informazione o trasmissione orale di conoscenze su tali dinamiche.

Spinta dalla curiosità di indagare sulle lacune nella storia dell’emigrazione della mia famiglia, vado in Brasile, precisamente a San Paolo, la più grande città italiana fuori dall’Italia, secondo il numero di persone di origine italiana che vi risiedono.³ Il mio viaggio non ha tanto lo scopo di ricostruire una storia dettagliata di ciò che è accaduto ai miei consanguinei, quanto di ricercare il genius loci che è partito con loro e che deve aver dimorato, ad un certo punto, da qualche parte nella destinazione. In portoghese, i concetti di destino e destinazione si sovrappongono e si fondono nella stessa parola: destino. Proprio come nell’esperienza stessa della migrazione, il luogo e il destino non possono essere separati, idea a cui mi riferisco con il concetto di genius loci.
La parola destino e il suo doppio significato in portoghese forniscono spunti di riflessione su come le identità siano tutt’altro che stagnanti, ma piuttosto plasmate dagli ambienti in cui si muovono, dai luoghi a cui aneliamo. Sono consapevole che lo stesso genius loci che mi ha permeato da piccola non si trovi più da nessuna parte. Ma ne cerco comunque le aberrazioni contemporanee – sistemi di sorveglianza, cancelli alti e recinti elettrici, per esempio – per capire cosa protegge (o minaccia) il senso di casa delle persone ai nostri tempi. In che modo questo avviene, e dove intravederlo.
Questa ricerca partirà dagli spazi pubblici, dalle strade, trattando la città come un archivio aperto, un atlante di esperienze umane che a volte sono indesiderate e dunque costrette al silenzio dall’onnipotente Urbanista, spesso attraverso la demolizione fisica, lo sfratto, l’isolamento. Il ricordo del paese quasi in rovina, sebbene innocuo per la storia in corso, rimane l’àncora che fonda le mie riflessioni durante la mia esperienza in Brasile. È un ricordo architettonico e sociale di un passato che getta una luce diversa sulla vita urbana. Ora emerge, con le distorsioni caratteristiche del ricordo di qualcosa che non abbiamo vissuto in prima persona, nelle narrazioni ereditate dai discendenti calabresi che incontro.
L’ambiguità della parola destino si riferisce alla deriva, o dérive, che intraprendo per condurre questa ricerca. Incuriosita dall’idea Situazionista di psicogeografia, utilizzo il camminare come metodologia. In una dérive una o più persone, per un certo periodo, abbandonano le loro relazioni, il loro lavoro e le loro attività ricreative, e tutti gli altri motivi abituali che determinano i loro spostamenti e le loro azioni. Ogni passo compiuto su un sentiero dice qualcosa sul potere che i luoghi hanno su di noi, essendo progettati per attirarci o allontanarci con la loro aura. Esistono correnti e vortici che influenzano i nostri movimenti, quindi il caso gioca un ruolo minore di quanto si possa pensare. Ad esempio, una volta a San Paolo, mi sono ritrovata a Bixiga, un quartiere “italiano”, senza averlo cercato sulla mappa.
I villaggi calabresi, così come Bixiga, prima che avessero luogo i movimenti di massa, erano caratterizzati da organizzazioni non strutturate. Come in altre regioni meridionali, questi villaggi erano organizzati attorno a un sistema agro-pastorale di subalternazione, in cui la maggior parte delle persone doveva la propria vita e lavoro ai pochi proprietari terrieri. A Bixiga, i clan di ex schiavi vennero a risiedere nel quartiere paulistano⁴ verso la fine del XIX secolo, dopo la loro liberazione. All’epoca, questa regione era una zona periferica. In un’Italia recentemente unificata e in un Brasile imperiale post-abolizionista, entrambi i modelli sociali divennero inadeguati ai nuovi sogni di modernità imposti dall’alto, dunque le loro storie furono messe a tacere o semplicemente narrate attraverso la lente disumanizzante del lavoro.
Nella mia ricerca uso l’espressione “comunità subalterne” per riferirmi sia al popolo calabrese prima dell’emigrazione, sia alle comunità nere o del nord-est brasiliano residenti nel quartiere di San Paolo. Invece di cercare una maniacale conservazione storica, cerco di attingere agli aspetti intangibili di queste storie. Osservo i tratti dell’espressione culturale che si annidano negli spazi pubblici liminali, adottando quella che Carine Zaayman chiama “pratica anarchivistica”. Ripensare la custodia del passato, scrive, può iniziare con l’esporre la vastità dell’assenza negli archivi. L’assenza, in questo caso, Zaayman la definisce come “non solo ciò che avrebbe potuto essere registrato ma che incidentalmente non lo è stato, o ciò che è stato registrato ma successivamente perso. Piuttosto, l’Anarchivio è costituito da ciò che in primo luogo sfugge alle matrici documentarie che rendono possibili gli archivi”.⁵
Sia nella mia scrittura che nel mio processo creativo, utilizzerò quindi sistemi di organizzazione “alternativi” che sfuggono alle categorie coloniali, ad esempio materiale orale, affettivo, sensoriale, immateriale e inventato, prodotto attraverso processi co-progettati e nati dal dissenso. Manifesto il dissenso rispetto alle pratiche archivistiche tradizionali attraverso l’uso di interviste spontanee con i residenti e i frequentatori dei luoghi, dando priorità alla loro esperienza dello spazio e della comunità, alla cartografia emotiva, ai ricordi sparsi e alle storie di relazione come nucleo narrativo.
Mi ispiro alle idee di Zaayman per sottolineare l’importanza del dissenso, che cerco di fare mio ponendo l’accento sui momenti di discontinuità nella ricerca d’archivio. Questi momenti sono come intervalli di tempo in cui mi soffermo per interagire pienamente con il luogo in cui pianto i piedi, resistendo a conclusioni affrettate ed evitando il rischio di etichettare luoghi e persone. Queste pause sono strutturali nel mio processo, indicate come interruzioni nella “sceneggiatura” che scrivo, o come l’alternarsi e sovrapporsi di diversi media nella mia timeline video.
La decisione di utilizzare un formato simile a una sceneggiatura è un modo per me di svelare lentamente qualcosa che sto osservando da una posizione marginale: né come residente autorizzata, né come migrante. Provenendo da una posizione intermedia, sono un personaggio satellite che orbita attorno agli spazi negativi lasciati da coloro che sono emigrati. La loro assenza ha contribuito a plasmare il mio senso di identità. Il desiderio di conoscere gli spazi positivi, i loro sogni esposti alla luce, è diventato più urgente con il passare del tempo. Ha portato la “me-creatrice” a intervenire nella prova fotografica di un esodo. Inserendola in una linea temporale video, cerco di salvare questa storia da un passato fossilizzato e di infonderle un nuovo significato, allungandone le temporalità. In particolare, cerco un dialogo con un presente che è vivo e richiede attenzione.
Ogni “scena” di questi scritti è un esperimento narrativo, che prova a far riaffiorare il maggior numero possibile di riferimenti alla profondità della storia; ogni parte delinea e accompagna la mia dérive.
L’Internazionale Situazionista descrive la “deriva” come un rituale di camminata inteso a rompere la monotonia del capitalismo; lo fa prestando attenzione a nuove esperienze con lo spazio. Camminare può essere un intervento radicale contro la vita isolata, ed è il mezzo con cui inizio a prestare attenzione al modo in cui percepisco l’ambiente, e a familiarizzare con le sue asimmetrie. Mi ha anche dotato di una certa apertura, concedendomi di sbloccare una serie di incontri, alcuni dei quali hanno camminato insieme a me, apportando ulteriore profondità alla mia comprensione dei percorsi intrapresi. È in questo tipo di contatto che mi piace intravedere una nuova forma di genius loci, che non ha più il compito di proteggere uno spazio delimitato – una radice – ma è invece responsabile di proteggere la sacralità di un incontro tra estranei che si riconoscono a vicenda – un rizoma.
Ispirata dall’approccio situazionista, includo nella mia scrittura isole di pensiero e memoria sotto forma di scene, sempre basate su un tempo e un luogo specifici. Nel formato sceneggiato, diversi “momenti” della dérive alternano immagini dell’Italia e del Brasile, gradualmente creando un intreccio.
Voglio descrivere la natura irregolare di un viaggio. Le questioni di identità non vanno da A a B, ma piuttosto da D a H a B e W, richiedendo talvolta l’immaginazione di nuovi alfabeti. Impiantarsi in un ambiente straniero comporta innumerevoli ostacoli e dà luogo a trasformazioni interiori ed esteriori. Pertanto, non è nella durata di un viaggio, né nella distanza percorsa tra due luoghi geografici, che diventeremo ciò che siamo. È invece nella somma di elementi quali impressioni, ambienti, simboli, comportamenti politici, conflitti, miti, modi di abitare lo spazio e di percepire il tutto con i nostri singolari corpi che dovremmo ricercare la nostra essenza. Soprattutto, l’identità è una storia di relazioni, quella che costruiamo con il mondo e con gli altri, la poetica di vita che scegliamo e che ci permette o ci impedisce di appartenere a un luogo e/o a una comunità.
Il mio personale tentativo di affrontare il tema dell’identità e dell’appartenenza osservando la migrazione italo-brasiliana è ben lungi dall’essere una descrizione esaustiva. Per essere compresa appieno, questa storia richiederebbe probabilmente l’impegno attivo di (almeno) una vita intera, sia con il paese semi-abbandonato che con il quartiere “italiano” di San Paolo.
La mia ricerca, proprio come la mia dérive, è sostenuta dalla critica di Deleuze e Guattari alle nozioni di radice e di radicamento nei contesti nazionalisti. A pensarci bene, la radice è un ceppo unico, che attira tutto su di sé e uccide tutto ciò che la circonda. In opposizione a ciò, per affrontare le questioni di identità, considero più appropriata l’idea del rizoma, un sistema di radici intrecciate, una rete che si diffonde nel terreno o nell’aria, senza che nessuna radice predatrice prenda il sopravvento in modo permanente. Per raccontare la storia della mia comunità non posso evitare di parlare anche della storia di quelle altre persone il cui destino si è intrecciato con quello degli immigrati europei in Brasile dalla fine del XIX secolo in poi.
Vorrei aggiungere qui, per contestualizzare, che la diffusa analogia romantica tra identità e radicamento può rivelarsi pericolosa, poiché, in quanto animali sociali, siamo destinati all’interazione, che crea prima la relazione e poi l’influsso. Solo chi vive in una bolla di paura, o nell’ignoranza dell’alterità, affermerà e difenderà di essere solo una cosa pura, di avere radici cementate in una coordinata stabile e incontestabile. E anche in questi casi, basterà scavare un po’ per scoprire che esistono steli sotterranei che possono raggiungere estensioni straordinarie, rompendo l’asfalto della purezza per fiorire in un luogo lontano che consideravamo estraneo. Lì troveremo qualcosa di nuovo, o di molto ancestrale, su noi stessi. E il genius loci apparirà come un’energia pulsante che non è ancorata a un luogo, ma al nostro stesso sentimento di pluralità.

Note
¹ Pars destruens e pars construens (dal latino) sono parti complementari dell’argomentazione. La parte negativa, che consiste nel criticare le opinioni altrui, è la pars destruens. La parte positiva, invece, che consiste nell’esporre la propria posizione e i relativi argomenti, è la pars construens.
² Teti, Vito. Maledetto Sud. Torino: Einaudi, 2013. p. 49
³ Secondo il governo italiano, 25 milioni di brasiliani sono di origine italiana, rendendo il Brasile il paese con la più grande popolazione di discendenza italiana al di fuori dell’Italia stessa. Circa 6 milioni (ovvero circa il 60% degli immigrati italiani) si trovano nello Stato di San Paolo, il che fa sì che la città abbia più persone di origine italiana di qualsiasi regione italiana; per questo, all’inizio del XX secolo, San Paolo veniva chiamata la “Città degli Italiani”. Dopo Roma, San Paolo è la città con la più alta popolazione di discendenza italiana (Immigrazione a San Paolo, www.brazilbrasil.com/destinations/sao-paulo/immigration, consultato il 16-01-25).
⁴ Della città di S. Paulo.
⁵ Zaayman, Carine. Anarchival Practices: The Clanwilliam Arts Project as Re-imagining Custodianship of the Past. Berlin: ICI Berlin Press, 2023. p. 14.

Filmmaker sperimentale, fotografa e ricercatrice italiana, attualmente
basata nei Paesi Bassi. La sua pratica si muove tra fotografia, archivi e media temporali, esplorando i
temi di memoria, identità e migrazione attraverso un approccio collaborativo. Cresciuta in Calabria,
ha sviluppato un interesse per la geografia umana e i processi di spostamento, che si riflette nel suo
progetto in corso genius loci as a drifter (genius loci in deriva), sull’emigrazione calabrese in Brasile.
Con un background in lavoro sociale e più di sette anni di esperienza come fotografa freelance, ha
collaborato con comunità ai margini urbani in America Latina, Africa del Nord ed Europa. Tra i
progetti/collaborazioni recenti: Off Campus San Siro (Milano), Paradise The Hague con l’Embassy
of the North Sea, e la scuola dissidente NUA in una favela della zona est di São Paulo. È
attualmente studentessa MA in Photography & Society alla Royal Academy of Art de L’Aia.
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