Lieve come ciò che scompare

Conversazione con Veronica Neri

Veronica Neri abita le intercapedini del quotidiano, muovendosi dove le cose finiscono e prendendosi cura di ciò che non trova posto. I suoi gesti si annidano in interstizi dissonanti, tra l’organicità della materia e il sedimento evanescente della memoria. Abitano il delta instabile tra la custodia e la resa. Non c’è alcuna urgenza di costruire, ma una necessità più sottile: quella di restare accanto, di accompagnare ciò che sfiorisce e che si dimentica. Fiori ormai rifiuti, lenzuola dismesse, stoffe inumidite, parole fragili: il suo è un archivio effimero, fatto di scarti che ritornano, di forme che non cercano durata ma attraversamento. In un tempo che celebra la spettacolarità, la mercificazione, la sovraesposizione e la produttività, l’opera di Neri compie un gesto quasi politico: praticare forme di presenza che non si lasciano catturare, che si offrono per sottrazione, senza mai ritirarsi. La sua pratica si muove contro la retorica dell’efficienza, del valore d’uso, della visibilità obbligata, e costruisce un territorio di resistenza poetica. Attraverso le sue pratiche site-specific, Neri attiva una ritualità minima ma simbolicamente densa, in cui l’opera si fonde con il luogo e il tempo agisce non come cornice, ma come materia stessa. Liturgia quotidiana, resti che parlano, mantra senza voce. Estetica della rinuncia, della lentezza, della soglia. La sua arte non grida, ma sussurra e si trasfigura – con grazia, con ostinazione. Contro ogni richiesta di conformità a un’immagine riconoscibile, vendibile, esponibile, Veronica Neri contesta la logica del dominio. Una risposta etica, umile e radicale.

Per la mia famiglia, 2024. fiori su lenzuola.

 

[origini, formazione, visione]


Se dovessi raccontare dove tutto è iniziato – non in termini biografici, ma come esigenza, come forma di sguardo – dove torneresti? Da dove nasce il tuo stare nel mondo attraverso l’arte? C’è stato un gesto, un luogo, una mancanza che ha innescato il tuo fare?

Non riesco ad identificare un momento preciso, o un concetto iniziale. Mi viene da pensare che questa esigenza ci sia sempre stata, ma non nella forma attuale. C’è chi dice che il nostro impulso creativo derivi dal fatto che non possiamo vivere per sempre, dall’insoddisfazione per la nostra finitudine, dal voler lasciare qualcosa che ci sopravviva. Sono sicura che tutto nasca dalla volontà, magari inconsapevole all’inizio, e via via sempre più chiara. Mi sento molto diffidente verso chi dice che è un artista dall’infanzia. Nonostante le istanze creative che si possano sentire fin dai primi anni, libere di disperdersi nelle forme più disparate e spontanee di espressione, credo che da un certo momento debba iniziare ad affiorare una direzione etica sempre più precisa, e man mano che si impara a prendere la mira senza guardare, si inizia davvero a fare. L’atto di creazione è un atto trasformativo per chi crea, per ciò che viene creato, per chi ne farà esperienza; bisogna costruire, quindi, con coraggio e consapevolezza di sé.

 

Cosa ti ha permesso di affinare uno così sguardo laterale, capace di riconoscere il valore in ciò che sfugge alle definizioni canoniche?

Ho sempre avuto una fascinazione per gli scarti, per ciò che viene abbandonato, e traggo un enorme piacere dal dare valore ai materiali più marginali e/o in eccesso, non solo nella mia pratica artistica. Credo che in un momento storico come quello che ci troviamo a vivere non ci sia bisogno di mettere al mondo “novità” foraggiando il consumismo, ma di utilizzare ciò che già c’è, e così facendo, rinnovarlo, mostrare un altro punto di vista. Allenare ed allenarsi. Per il “cosa ha affinato il mio sguardo”, sicuramente l’esperienza e le influenze: tanto di ciò che ho letto, le persone di grande valore che mi hanno formata, l’impostazione mentale contadina e rurale della mia famiglia, abituata a vivere con poco.

 

Quando crei, senti di avere il controllo sul processo o piuttosto di essere attraversata da qualcosa che si muove altrove? Sei tu a generare l’opera, o l’opera nasce nonostante te?

L’opera nasce insieme a me.

Fiori su questo fiore, 2025. acqua, fiori. Installation view Anticolavatorio, Poggio Mirteto (RI) Crediti fotografici: Michele Del Signore

 

[soglie, materia, ritualità]

 

Il gesto del recupero non è mai semplicemente un atto riparativo. Raccogli fiori che sono stati scartati, respinti, esclusi ormai da ogni funzione se non quella di diventare immondizia. In Fiori su questo fiore, installazione realizzata nel lavatoio di Poggio Mirteto (2025), il gesto si attua in un luogo già saturo di memoria: spazio funzionale e “domestico”, ma anche simbolico. Lì, l’acqua non lava: raccoglie, accompagna, disfa. Che forma ha preso, in quel contesto, il tuo stare accanto a ciò che per sua natura svanisce?

Quest’opera è stata molto importante per me, in un modo che sto ancora cercando di comprendere. Per questioni biografiche, l’ho vissuta come un modo per celebrare e allo stesso tempo lasciare andare tutto ciò che è stata la mia giovinezza, l’età del fiore degli anni, in cui canonicamente si raggiunge il massimo della bellezza immatura. Forse anche per questo ho scelto come titolo Fiori su questo fiore, frase pronunciata dalla regina Geltrude, madre di Amleto, sulla tomba di Ofelia. Nonostante la natura tragica del suicidio, quelle parole sanciscono un legame tra maternità e filialità, due età, due fasi profondamente differenti ma collegate. L’una contiene l’altra: come l’acqua contiene e sostiene i fiori, li nutre e poi li fagocita mischiandosi con loro, rendendoli materiale che dà vita e nutrimento per altre forme di vita.

 

Raccogliere è un atto semplice, quotidiano, quasi invisibile. Ma sembra caricarsi di sacralità, oltre che di intimità. Quando avviene per te questo slittamento? In quale momento il gesto minimale si carica di senso?

Credo sia per la ripetizione. Ho iniziato a raccogliere i fiori dal 2018, e non ho mai smesso. Mi dà serenità, mi permette di vivere bene, pur essendo consapevole dell’inutilità eminentemente pratica di questa azione. È l’atto stesso di compiere delle azioni senza scopo, e perpetuarle, che è sacro. Un esercizio del sé sul sé.

 

Ci sono immagini che non citi, ma che ti abitano in profondità? Figure che non nomini, ma che tornano come presenze sotterranee nella tua pratica?

Ce ne sono moltissime, e credo i rimandi siano fin troppo chiari. Le influenze ci formano fino a non farci distinguere più esattamente tra il nostro interno “puro” e l’esterno “contaminante”, ma è giusto e umano che sia così.

 

La materia che scegli si trasforma: prima residui intimi, poi presenze attive e corpi in transito. Cosa accade quando questi materiali diventano opera? Sono dispositivi di memoria attiva o lasciano emergere qualcosa di completamente nuovo?

Entrambe le cose. Quando un materiale smette di essere univoco, di essere solo autoreferenziale, solo funzionale, solo dispositivo di memoria, solo residuo di intimità, ma si carica di tutti questi valori insieme, e inizia a generarne degli altri, allora qualcosa sta accadendo. 

Senza Titolo, 2025. Fiori, lenzuola

 

[risonanze, riferimenti, relazioni]

 

Nel tuo lavoro si percepiscono echi e risonanze, anche se mai dichiarate. Hai mai sentito affinità profonde – non necessariamente dichiarative – con altre pratiche e altrə artistə? Chi riconosci come parte della tua costellazione sensibile?

Se dovessi elencarli tutti, forse potrei nominare un centinaio di artisti da cui mi sento influenzata. Mi interessa particolarmente chi ha incentrato la propria ricerca più sulla pratica che sul prodotto finale, ma anche chi ha saputo collegare perfettamente il proprio privato con il pubblico, accrescendo proprio per questo la carica poetica del lavoro. Credo l’artista a cui penso più spesso sia Felix Gonzalez-Torres.

 

Il titolo Nell’impalpabile abdico, mostra tenuta nello spazio Angolo Cottura, a cura di Laura Catini (2023), sembra contenere un gesto doppio: da un lato la rinuncia, dall’altro l’affidamento. Come vivi, nella tua pratica, la tensione tra custodire e lasciare andare?

Bisogna rinunciare alla pretesa di controllare ciò che necessariamente deve sfuggire al controllo. L’inconsapevolezza dei propri limiti rovina la vita a sé e agli altri, rovina tutto. Custodire non deve forzatamente significare conservare. È giusto anche essere solo testimoni, osservare l’esistenza delle cose che svolgono il loro corso, senza ingerenze, riuscire a meravigliarsi del più ordinario degli spettacoli, preoccupandosi di agire e sforzarsi per ciò che resta eticamente nel proprio potere. Smettiamo di disperarci per ciò che non riusciamo a trattenere.

 

Qual è il rapporto che instauri con l’idea del lutto? Come ti interessa esplorare quella dimensione intima e invisibile del dolore, spesso priva di riti e parole?

La morte fa parte della vita, ma morte e lutto non sono la stessa cosa purtroppo. Ci sono dolori che non si possono spiegare, né tantomeno comprendere. Credo che accettare l’idea della morte in generale sia molto più facile di accettare la morte di qualcuno in particolare. È un modo di restare soli, di sentirsi abbandonati, di sentire una mancanza per sempre. Non so come rispondere a questa domanda, non ho la freddezza giusta per poterlo fare. Per ciò che so ora, l’unico modo possibile di relazionarsi con il lutto è la discrezione.

 

Che tipo di relazione immagini con chi guarda? Pensi a una figura precisa – testimone, complice, visitatorə – o preferisci pensare lə spettatorə come presenze discrete, quasi assenti, ma necessarie?

Forse più la seconda. Per me è fondamentale che l’opera avvenga, solo dopo può vivere con gli altri. Ci tengo a specificare, il che può apparire scontato ma sono abbastanza sicura non lo sia, che fare esperienza diretta dell’opera è ben diverso dal guardarne una restituzione documentativa (foto, video) comodamente da casa, dalla propria città. Spesso il fatto stesso di muoversi quando lo si ritiene importante, fare uno sforzo per raggiungere un determinato luogo, predisporsi all’incontro diretto con le cose e le persone, mettersi in gioco, è importante. Solo così il nostro lavoro può davvero accompagnare la vita.

Semprevivo, 2024. Fiore, elettroformatura in rame

 

Veronica Neri

Veronica Neri (Sora, 1995) è un’artista visiva che indaga i temi della caducità, della vanitas, della dicotomia tra presentazione e rappresentazione, utilizzando materiali ricorrenti: fiori recisi e lenzuola domestiche. Le sue opere sono spesso il risultato di pratiche intime e private, poi restituite al pubblico, tra cui la raccolta di fiori in via di decomposizione dai rifiuti dei cimiteri; l’interrare e dissotterrare oggetti e supporti, facendo agire la terra direttamente su di essi, la realizzazione di installazioni in luoghi domestici e/o marginali.

 

@veronicaneri___

Veronica Neri. Crediti fotografici: Massimo Roma

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